Joan Lui, Celentano e un dodicenne davanti all’Apocalisse in prima serata su Canale 5

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La locandina di “Joan Lui – ma un giorno nel paese arrivo io di lunedì” di martedì 24 dicembre 1985.

Dal momento che questo blog è, in qualche modo, specializzato in ritorni, in corsi e ricorsi (anche non storici), pure all’interno dello stesso blog, riparliamo di Adriano Celentano, dopo che avevamo già dedicato al molleggiato un post riguardante una sua canzone, dedicata ai mass media, che aveva precorso i tempi.

Questa volta parliamo di un suo film uscito nelle sale nel dicembre 1985, tale “Joan Lui, ma un giorno nel paese arrivo io di lunedì”, che fece un po’ di scalpore (mi piacerebbe dire “molto scalpore” ma non è così) dalla seconda metà degli anni ottanta in poi. L’opera cinematografica inaugurò ufficialmente l’epopea messianico-profetica di Celentano, cominciata in sordina qualche anno prima in alcune sequenze nell’altro suo film da regista “Geppo il folle” del 1978, proseguita nella fiaba ecologista del 1982 “Bingo Bongo” e poi, dopo appunto “Joan Lui” sfociata nella sua conduzione animalista-profetica dello show del sabato sera di Rai Uno, “Fantastico 5” e in altri programmi in prima serata dove lui era incontrastato mattatore.

C’è da dire che tutto ciò venne anticipato da alcune sue canzoni e album degli anni settanta e da quella canzone del 1966 che abbiamo citato all’inizio, coeva alla molto più nota “Il ragazzo della via Gluck.” Celentano, fin da quei tempi lontani, s’è sempre mostrato attratto dal lato oscuro della civilizzazione occidentale.

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Non vi stupirete, dunque, se scrivo che, fin e soprattutto dai tempi della mia infanzia, ho sempre trovato INQUIETANTE e quasi pauroso l’Adriano nazionale, che passava tranquillamente dalla comicità demenziale alla Jerry Lewis (suo mentore di gioventù) ad agghiaccianti presagi di sventura per l’Occidente intero. Quand’ero bambino, ovviamente, non potevo rendermi conto di certe cose, ma percepivo, comunque, la cupezza e l’angoscia di ciò che vedevo sullo schermo, guardando un film che, da commedia idiota si trasformava in una specie di horror denso di particolari da incubo e molto più paurosi, poiché non riguardavano Frankenstein, Dracula o l’Uomo Lupo ma orribili realtà della vita di tutti i giorni in Occidente.

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Già con “Bingo Bongo”, visto all’età di sette anni in un cinema scomparso della mia città, m’aveva angosciato l’umano-scimmia che mostra la sua forza atavica sollevando un camion in una zona malfamata della città, mentre poco prima era inseguito da brutti ceffi che volevano fargli la pelle, il tutto intervallato da immagini di una torbida orgia in un locale, ma “Joan Lui”, visto su Canale 5 in prima serata – e in prima visione – in non so quale sabato di novembre 1988, fu davvero una collezione di pugni nello stomaco, in crescendo. E ciò ancora più pauroso perché totalmente contrastante con la comicità stile “Drive In” che si respira soprattutto nella prima parte.

Vado a memoria: disperati che si bucano nel cesso del treno, sparatorie sanguinose in pieno giorno (tra l’altro nella mia città, dove girarono quelle scene), rapimenti di ragazze altolocate poi costrette a vivere legate in un tugurio tra ratti di fogna e con un folle che le sta per ammazzare con una siringa mentre vi è il “momento paranormale” – il quale  quindi genera ulteriore stranezza e inquietudine – del messia Celentano-Joan Lui che, dallo schermo Tv – dopo un interminabile momento di silenzio con gli occhi fissi – parla direttamente al drogato-rapitore intimandogli di liberare la ragazza, utilizzando giri di parole da messia; l’incontro con una specie di Anticristo orientale, magrissimo e terribile (che prima era assurdamente tra gli storpi che Celentano aveva miracolosamente guarito!) il quale si rivela essere una specie di “eminenza grigia” del Male che domina i governi del mondo; donne altolocate, apparentemente equilibrate, e poi in preda all’autodistruzione, annunci sibillini di Joan Lui in diretta Tv alla polizia che poi si rivelano anticipazioni telepatico-profetiche inerenti un carico di feti umani destinati alle multinazionali, dentro un treno merci fermo alla stazione…e poi la scena apocalittica finale, dove tutti i sinistri presagi dell’intero film hanno un esito tragico per l’intero pianeta, la Casa Bianca crolla, il demone orientale si trasforma in uno zombi dopo avere vomitato roba biancastra dentro una chiesa ormai completamente sconsacrata, coi crocefissi fatti a pezzi, Claudia Mori (una giornalista sovietica) rimane travolta dalle rovine mentre scrive a macchina e, sotto le macerie tra le sue dita sanguinanti, compare un foglietto con scritto “Ti amo.”

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La scena di “Joan Lui” dove Celentano e l’orientale hanno assurdamente la stessa voce (quella del molleggiato) e Celentano dice “Un tempo avevamo la stessa voce…”

La terribilità di tutte queste cose viene esaltata da un montaggio delle attrazioni – ad opera dello stesso Celentano – e da musiche ad hoc. Tra l’altro, in quel lontano sabato di novembre 1988, venne mandata in onda su Canale 5 la versione integrale, quella non tagliata, quella di più di due ore e mezza. Inoltre, il film, fin dall’inizio fu maledetto, costò uno sproposito ai produttori italiani (tant’è che dovettero persino essere aiutati da certi figuri della Germania Est), venne distribuito male, fece litigare Celentano con mezzo mondo e fu, infine un flop al botteghino.

Ripeto, all’età di dodici anni appena compiuti, dopo aver ricevuto in precedenza qualche avvisaglia dalla visione di “Bingo Bongo” (e successivamente qualche scena anomala di “Geppo il folle”), quel film mi scombussolò, e ciò fu probabilmente l’intenzione di Celentano, il quale ebbe come l’intenzione, tra una risata e l’altra (?!) di mostrare al pubblico come sia meglio non chiudere gli occhi di fronte alle cose più tremende dietro alla scena del mondo come lo conosciamo; a tratti pare che il molleggiato mostri uno strano piacere malefico nell’indugiare negli aspetti più turpi dell’ “anima nera” dell’Occidente.

Sembra quasi che Celentano sia in preda a una specie di “volontà di svegliare la gente prima che sia troppo tardi”, e si senta in diritto e dovere – utilizzando la sua popolarità e la sua esposizione mediatica – di dare il suo contributo per sensibilizzare il pubblico su realtà spiacevoli le quali trovano poco spazio nell’agenda massmediatica, tutta intenta, invece, a minimizzare e occultare gli aspetti spaventosi del sistema criminale in cui l’Occidente si trovava e si trova immerso.

Dicendo che ho altri pensieri al riguardo di questa sorta di MISSIONE di Celentano – la quale dura fin dal 1966 – ma che non esterno (ancora) perché troppo dietrologici, presento la scena del film dove l’Anticristo orientale fa lo stesso monologo che appare in un film americano di qualche anno prima, di Sidney Lumet, “Network”, in Italia “Quinto Potere.”