Joan Lui, Celentano e un dodicenne davanti all’Apocalisse in prima serata su Canale 5

23 04 2014
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La locandina di “Joan Lui – ma un giorno nel paese arrivo io di lunedì” di martedì 24 dicembre 1985.

Dal momento che questo blog è, in qualche modo, specializzato in ritorni, in corsi e ricorsi (anche non storici), pure all’interno dello stesso blog, riparliamo di Adriano Celentano, dopo che avevamo già dedicato al molleggiato un post riguardante una sua canzone, dedicata ai mass media, che aveva precorso i tempi.

Questa volta parliamo di un suo film uscito nelle sale nel dicembre 1985, tale “Joan Lui, ma un giorno nel paese arrivo io di lunedì”, che fece un po’ di scalpore (mi piacerebbe dire “molto scalpore” ma non è così) dalla seconda metà degli anni ottanta in poi. L’opera cinematografica inaugurò ufficialmente l’epopea messianico-profetica di Celentano, cominciata in sordina qualche anno prima in alcune sequenze nell’altro suo film da regista “Geppo il folle” del 1978, proseguita nella fiaba ecologista del 1982 “Bingo Bongo” e poi, dopo appunto “Joan Lui” sfociata nella sua conduzione animalista-profetica dello show del sabato sera di Rai Uno, “Fantastico 5” e in altri programmi in prima serata dove lui era incontrastato mattatore.

C’è da dire che tutto ciò venne anticipato da alcune sue canzoni e album degli anni settanta e da quella canzone del 1966 che abbiamo citato all’inizio, coeva alla molto più nota “Il ragazzo della via Gluck.” Celentano, fin da quei tempi lontani, s’è sempre mostrato attratto dal lato oscuro della civilizzazione occidentale.

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Non vi stupirete, dunque, se scrivo che, fin e soprattutto dai tempi della mia infanzia, ho sempre trovato INQUIETANTE e quasi pauroso l’Adriano nazionale, che passava tranquillamente dalla comicità demenziale alla Jerry Lewis (suo mentore di gioventù) ad agghiaccianti presagi di sventura per l’Occidente intero. Quand’ero bambino, ovviamente, non potevo rendermi conto di certe cose, ma percepivo, comunque, la cupezza e l’angoscia di ciò che vedevo sullo schermo, guardando un film che, da commedia idiota si trasformava in una specie di horror denso di particolari da incubo e molto più paurosi, poiché non riguardavano Frankenstein, Dracula o l’Uomo Lupo ma orribili realtà della vita di tutti i giorni in Occidente.

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Già con “Bingo Bongo”, visto all’età di sette anni in un cinema scomparso della mia città, m’aveva angosciato l’umano-scimmia che mostra la sua forza atavica sollevando un camion in una zona malfamata della città, mentre poco prima era inseguito da brutti ceffi che volevano fargli la pelle, il tutto intervallato da immagini di una torbida orgia in un locale, ma “Joan Lui”, visto su Canale 5 in prima serata – e in prima visione – in non so quale sabato di novembre 1988, fu davvero una collezione di pugni nello stomaco, in crescendo. E ciò ancora più pauroso perché totalmente contrastante con la comicità stile “Drive In” che si respira soprattutto nella prima parte.

Vado a memoria: disperati che si bucano nel cesso del treno, sparatorie sanguinose in pieno giorno (tra l’altro nella mia città, dove girarono quelle scene), rapimenti di ragazze altolocate poi costrette a vivere legate in un tugurio tra ratti di fogna e con un folle che le sta per ammazzare con una siringa mentre vi è il “momento paranormale” – il quale  quindi genera ulteriore stranezza e inquietudine – del messia Celentano-Joan Lui che, dallo schermo Tv – dopo un interminabile momento di silenzio con gli occhi fissi – parla direttamente al drogato-rapitore intimandogli di liberare la ragazza, utilizzando giri di parole da messia; l’incontro con una specie di Anticristo orientale, magrissimo e terribile (che prima era assurdamente tra gli storpi che Celentano aveva miracolosamente guarito!) il quale si rivela essere una specie di “eminenza grigia” del Male che domina i governi del mondo; donne altolocate, apparentemente equilibrate, e poi in preda all’autodistruzione, annunci sibillini di Joan Lui in diretta Tv alla polizia che poi si rivelano anticipazioni telepatico-profetiche inerenti un carico di feti umani destinati alle multinazionali, dentro un treno merci fermo alla stazione…e poi la scena apocalittica finale, dove tutti i sinistri presagi dell’intero film hanno un esito tragico per l’intero pianeta, la Casa Bianca crolla, il demone orientale si trasforma in uno zombi dopo avere vomitato roba biancastra dentro una chiesa ormai completamente sconsacrata, coi crocefissi fatti a pezzi, Claudia Mori (una giornalista sovietica) rimane travolta dalle rovine mentre scrive a macchina e, sotto le macerie tra le sue dita sanguinanti, compare un foglietto con scritto “Ti amo.”

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La scena di “Joan Lui” dove Celentano e l’orientale hanno assurdamente la stessa voce (quella del molleggiato) e Celentano dice “Un tempo avevamo la stessa voce…”

La terribilità di tutte queste cose viene esaltata da un montaggio delle attrazioni – ad opera dello stesso Celentano – e da musiche ad hoc. Tra l’altro, in quel lontano sabato di novembre 1988, venne mandata in onda su Canale 5 la versione integrale, quella non tagliata, quella di più di due ore e mezza. Inoltre, il film, fin dall’inizio fu maledetto, costò uno sproposito ai produttori italiani (tant’è che dovettero persino essere aiutati da certi figuri della Germania Est), venne distribuito male, fece litigare Celentano con mezzo mondo e fu, infine un flop al botteghino.

Ripeto, all’età di dodici anni appena compiuti, dopo aver ricevuto in precedenza qualche avvisaglia dalla visione di “Bingo Bongo” (e successivamente qualche scena anomala di “Geppo il folle”), quel film mi scombussolò, e ciò fu probabilmente l’intenzione di Celentano, il quale ebbe come l’intenzione, tra una risata e l’altra (?!) di mostrare al pubblico come sia meglio non chiudere gli occhi di fronte alle cose più tremende dietro alla scena del mondo come lo conosciamo; a tratti pare che il molleggiato mostri uno strano piacere malefico nell’indugiare negli aspetti più turpi dell’ “anima nera” dell’Occidente.

Sembra quasi che Celentano sia in preda a una specie di “volontà di svegliare la gente prima che sia troppo tardi”, e si senta in diritto e dovere – utilizzando la sua popolarità e la sua esposizione mediatica – di dare il suo contributo per sensibilizzare il pubblico su realtà spiacevoli le quali trovano poco spazio nell’agenda massmediatica, tutta intenta, invece, a minimizzare e occultare gli aspetti spaventosi del sistema criminale in cui l’Occidente si trovava e si trova immerso.

Dicendo che ho altri pensieri al riguardo di questa sorta di MISSIONE di Celentano – la quale dura fin dal 1966 – ma che non esterno (ancora) perché troppo dietrologici, presento la scena del film dove l’Anticristo orientale fa lo stesso monologo che appare in un film americano di qualche anno prima, di Sidney Lumet, “Network”, in Italia “Quinto Potere.”





Appunti tratti dal mio quaderno (6)

30 11 2012

Ecco la sesta puntata tratta dai miei quaderni, su cui scrivo appunti a mano con la penna. Come al solito, avviso che sono pietre grezze, da lavorare ulteriormente, magari un giorno da far diventare “gemme.” Alcuni di questi risalgono al novembre 2010, fino a circa un terzo di questo testo. Tra le parentesi quadre c’è quello che ho aggiunto per rendere lo scritto più comprensibile e preciso.

La fotografia che ritrae la spiaggia di Sampierdarena, e l’epoca dell’era fascista, in cui c’era un’impronta di ordine e di crescita. Vi erano i regoli calcolatori, altro che i computer, ed era, tutt’al più, l’era dell’elettricità assieme all’industria pesante [non dell’elettronica.] L’elettronica era ancora di là da venire. Figura estremamente simbolica di Mussolini, ritratta in testa a giornali solo in bianco e nero dentro i quali vivevano immagini di gentildonne e gentildonne, di tempi che non erano “altri”, perchè erano proprio quelli. Tempi da qualcuno rimpianti nel dopoguerra, in seguito al 1945, quando gli yankee sui carri armati distribuivano chewing gum e “cioccolatte” ai bambini che li vedevano come “liberatori.” Bambini straccioni, a piedi nudi, in braghe di tela di sacco con le pezze al sedere.

Enorme potere simbolico della “bandiera a stelle e strisce”, dagli anni quaranta-cinquanta del secolo scorso in avanti. E quelli che sono stati chiamati “neocon” avrebbero voluto vedere in tal senso anche il XXI secolo. Il “Progetto per un nuovo secolo americano” (Project for a new american century), firmato da diversi appartenenti al governo Bush junior, risale al 1998.

Nostalgia dell’arcaico. Volto di Mussolini scolpito nella roccia, volto simbolico, con quella mandibola pesante [e carica d’energia] e quei labbroni. Statua scolpita in una delle colonie italiane in Africa. “Faccetta nera”, ma, nello stesso tempo, gentiluomini e gentildonne “all’antica”, come nell’ottocento. Uomini tutti con il cappello, “donne con le gonne.” Quella canzoncina della Baistrocchi, che avevo ascoltato nel 1996, simile come impostazione a “Passeggiando per Milano”, riportata dal gruppo Casino Royale all’inizio di un brano dell’album Dainamaita, nel 1993, che avrei ascoltato per la prima volta quattro anni dopo.

Cantanti [di aspetto “benpensante”], come Natalino Otto, “il ragazzo di Cogoleto”, [e poi] Alberto Rabagliati, Pippo Barzizza […] Tutta roba all’antica, alla buona, [antiglobale] e autarchica. Canzoni come “Mille lire al mese”, “Ma cos’è questa crisi”, inserzioni pubblicitarie con modi di dire desueti come “raffreddore di petto”, slogan che però all’epoca erano “alla moda.”

Però, tutto sommato, negli anni 30 del XX secolo, in Italia c’era uno strano vento di modernità (e penso che un’atmosfera simile la si respirasse anche in Germania), la Topolino 500 Fiat [e poi] la “novità dell’estate 1936 o 1936”, il gelato da passeggio chiamato PINGUINO. Cose da anni sessanta nel pieno degli anni trenta.

save-the-date-il-pinguino-da-passeggio-oggi-a-L-TA6ra9Quando c’era il programma domenicale della sera [su Italia 1] chiamato Drive In, e lo vedevo, da bambino, alla televisioncina in bianco e nero di plastica arancione, con l’antenna rotonda [che si regolava male], dentro il salotto dell’appartamento di mia nonna. Appartamento che mi sembra ricorrente in sogni che al mattino non ricordo [bene.] Comunque, vi era lo showman Gianfranco D’Angelo – ora del tutto scomparso – il quale, alla fine della puntata, esordiva sempre [dicendo]: “Amici…”, e cominciava una pappardella che faceva in modo di far ridere [e applaudire], a tratti, la platea del pubblico davanti.

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Poi Gianfranco D’Angelo faceva anche le imitazioni (come quella di Roberto Gervaso -“Gervasetto”, nome che fu ritrovato nella lista degli aderenti alla loggia massonica “Propaganda 2”), e di Marina Lante Della Rovere.

Stato di routine, abitudinarietà, ripetitività, ipnosi. Questo è stato il 2010.

Il patto “Ribbentrop-Molotov” del 23 agosto 1939. Ovvero il patto tra la Germania nazista e l’odiato nemico comunista URSS. Stalin somigliava [di faccia un po’ a] mio nonno. Patto paradossale, dato che per tutti i comunisti-socialisti di allora, della 3^internazionale, la stella polare della loro vita era la falce e martello di Stalin. Il presente di allora è questa foto di Molotov, con quell’aspetto [come] “disegnato a matita”, che ritrovavo anche [nelle foto] dei volumi dell’enciclopedia “Le Nove Muse”, per esempio. E anche in certi libri di scuola di mia mamma. Certi giornali, quando ebbero ricevuto la “velina”, la buttarono dentro il cestino della spazzatura, credendo che la notizia fosse uno scherzo. Le due innaturali alleanze di Stalin all’inizio e alla fine della II Guerra Mondiale: quella con il nazismo e quella con gli angloamericani (dominati dai signori del debito alle banche private.)

Adolf Hitler, passato dall’essere una [specie di] barbone nullafacente [a Vienna negli anni dieci], ai giochetti con [la nipote] Geli Raubal negli anni venti – perversioni e anomalie psichiche a non finire – a essere tra i protagonisti ESAGERATAMENTE STORICI della II Guerra Mondiale. Assieme a Winston Churchill, Benito Mussolini, Charles De Gaulle, Franklin D. Roosevelt, Josif Broz Tito e Stalin. Grazie al nonno, e ai libri e alle riviste che leggeva, sono cresciuto in quell’appartamento [già citato] con questi miti che aleggiavano.

Hitler sembrava avere il naso finto.

Le sincronicità nel corso della storia: ben oltre l’ “11.11” e il fenomeno per cui pensi a un conoscente e dopo un minuto ti telefona.

Storie nascoste sotto la superficie della storia ufficiale, che non sono facili da raccontare come quest’ultima.

Quando non vi erano svastiche, altri simboli nazisti e [scritte come] “W Hitler” pasticciati sui muri della città, o sui sedili dell’autobus, perchè già i quotidiani come “Il corriere della sera” avevano stampate immagini in B/N [raffiguranti] parate di svastiche e frasi con scritto “W Hitler.”

Il film “Olympia” di Leni Riefensthal, nonostante fosse ambientato nel pieno del nazismo, tra la notte dei coltelli e quella dei cristalli, pare essere simile a una delle telecronache [sportive] televisive. Telecronache, in realtà cinecronache, mentre gli atleti si esibiscono, coi loro corpi degni delle statue greche.

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A Prato Nevoso, [i primi giorni di] gennaio 1991, poco prima di ricominciare il liceo, con la malinconia di ritornare a scuola, pochi giorni prima dello scoppio della prima guerra del Golfo, quando avevo registrato “la notte di Blob” su RaiTre, e c’era quella sigla finale con la musica di John Coltrane, [il brano] “My sweetest thing.” [In quello stesso periodo] avevo anche letto quel volume, della collana “Siamo fatti così” [ispirata all’omonima serie a cartoon], in cui veniva esposto come la generazione [di chi scrive] sarebbe stata la prima a diventare galattica. Sembrava [una cosa] scritta da qualcuno che la sapeva lunga.

Siamo-fatti-così

[Uno studioso e giornalista], tal Knicherbocker, nel 1934, scrisse un libro “Ci sarà la guerra in Europa?”, in cui praticamente profetizzava la II guerra mondiale. Adolf Hitler lo acquistò per 12 lire e lo seguì alla lettera. Il celentaniano [film] “Zio Adolfo in arte Fuhrer”, con anche Felice Andreasi, una delle ICONE del periodo 1979-1983. In uno di quei fogli di giornale appiccicati sui muri all’ingresso di quel negozio: “Posto fisso se lavori di più” = meccanismo oppressivo che utilizza la psicologia delle masse, come quando Mario Monti ha espettorato: “I benefici di questa manovra non li vedremo noi ma i nostri lontani discendenti.”

Il pezzo “Jungla di città” del 1982 [sembrava essere stato] suggerito a Celentano dal principe Philip di Edimburgo, con le sue allusioni [al depopolamento terrestre], come [nel punto in cui canta] “Siamo troppi sulla Terra/come tappi/nella birra.”

In quel filmato del giugno 1940, a fianco di Mussolini, vi era un personaggio vestito di bianco che urlava “Saluto al Duce!”, ed era una ritualità di quei tempi…ai tempi in cui mio nonno aveva quindici anni, e poi voleva tramandare questa tradizione anche ai suoi nipoti. Cioè, stava attento che noi nipoti salutassimo.

saluto_al_duce

I gentiluomini che si levavano il cappello Borsalino, prodotto in Italia, quando incontravano una dama vestita con una gonna che, [solo] a partire dal 1912, arrivava al ginocchio. Quando prima arrivava fino alle caviglie. Non c’era niente lasciato al caso. I ruoli e le gerarchie erano ben individuabili, così come i ruoli destinati alle diverse età. Si apprendevano veramente i mestieri e le professionalità, si tramandavano di padre in figlio. In nuove industrie, attività umane, si investiva denaro sonante. Non soldi digitati su uno schermo, usciti fuori dal nulla e dati in prestito. Non voglio far cadere nell’equivoco che stia rimpiangendo quei tempi. [Sto solo facendo un’analisi oggettiva.] A scuola e nelle università si insegnava e si imparava per davvero. Ed era fortemente avvertita l’autorità accademica. Prima dell’alleanza dell’Italia con USA e UK nella NATO, [vi erano espressioni come] “Perfida Albione”, “Dio stramaledica l’Inghilterra”, e vi erano espressioni curiose, come “Il popolo dei cinque pasti.”

Il prossimo mese ci si troverà in una data limite, di cui se n’è tanto parlato negli anni scorsi, e di certo tante teste cadranno – nel mondo dell’informazione alternativa – se “qualcosa di grosso” non succede.

Ricordo quando l’anno scorso, più o meno a quest’epoca, attendevo che finisse il 2011 e iniziasse il 2012. Tutto il movimento nel corso del 2011 (la “primavera araba”, il conflitto in Libia e la morte di Gheddafi, l’arresto del direttore del FMI, la morte di Osama Bin Laden, le turbolenze finanziarie-speculative a luglio in Italia, la minaccia di default in USA il 2 agosto, gli indignados in Spagna, Occupy Wall Street in USA, il varo di un “governo tecnico” in Italia, imposto dall’estero dopo le dimissioni di Berlusconi…) m’aveva fatto pensare che il 2012 sarebbe stato ancora peggio…o ancora meglio [a seconda dei punti di vista.] E riempivo di attesa cose come il nome di quel sito (bufala) canadese, “The 2012 scenario”, pensando che tutta l’irrequietezza veduta nel 2011 era un assaggio di ciò che sarebbe successo l’anno successivo. Invece, il 2012 è stato un anno ricco di falsi allarmi, di sostanziale immobilismo e attendismo. Un anno alla “Aspettando Godot.” Anche se, in gennaio, c’era stato un avvenimento forte, che aveva un po’ scosso, ovvero l’affondamento della nave Costa Concordia. Tutto il resto è stato noia.