Recensione di “Fenomenologia della fine” di Franco “Bifo” Berardi

2 11 2020

Leggendo questo post di qualche giorno fa mi sono convinto della necessità di leggere il libro di Franco “Bifo” Berardi intitolato “Fenomenologia della fine”. E’ stato un impulso improvviso. A dispetto della passione che nutro per il sincromisticismo, non so fino a che punto è un bene seguire così ciecamente le intuizioni, gli impulsi e i colpi di testa, ma ad ogni modo, considerato che leggere un libro oggigiorno non può far mai troppo danno, mi sono procurato l’e-book e l’ho affrontato.

La copertina di “Fenomenologia della fine” di Franco “Bifo” Berardi

Devo ammettere una cosa. Parlando d’istinto, Franco Bifo Berardi non mi è naturalmente simpatico. Il suo modo di presentarsi, un po’ demodè, un po’ “trasandato con cura”, non fa che accrescere il mio pregiudizio. Il fatto che, da rapida ricerca web, risulti avere molta visibilità anche all’estero, con traduzioni e articoli internazionali, non aiuta a farmi cambiare idea, anzi. Sono tempi in cui cerchiamo Cassandre, profeti non necessariamente di sventura, ma possibilmente non-mainstream, di nicchia, su misura, capaci di interpretare un possibile sviluppo futuro con l’occhio libero dai condizionamenti.

Ritratto fotografico di Franco “Bifo” Berardi

Perciò quando comincio a leggere il suo saggio sono ancora, troppo, arroccato nella mia posizione di chiusura. Franco “Bifo” Berardi si professa anarcocomunista o comunque, come il suo amato Marx, fa sin dall’introduzione una analisi preliminare “teleologica” che vede nel comunismo l’obiettivo salvifico finale. Il suo sembra una ideologia vecchia, velleitaria, una posa fuori dal tempo, una distopia ancora in piedi perché non ha avuto ancora occasione di fallire o forse è già fallita e lui non se n’è accorto.
Ma Franco “Bifo” Berardi è onesto e riconosce, ad un certo punto del libro, il suo velleitarismo, anzi lo rivendica con coerenza.
Quando si continua a leggere, appare poi la vera natura dello scritto. Il suo, almeno nella prima parte, è un diario, un resoconto della pandemia che narra di vicende non troppo diverse da quelle che abbiamo vissuto tutti noi. Giornate scandite dalle stesse immagini che abbiamo visto nei drammatici momenti del lockdown ma raccontate con una certa freschezza, con linguaggio semplice ma non certo sciatto e con riflessioni intrise in parte col velleitarismo narrato prima, che finisce con il risultare anche simpatico, qualunque sia la nostra idea.
Amicizie, morti, ricordi, acciacchi personali, citazioni tratte da media digitali, storie di parenti, riti quotidiani si susseguono nei suoi ricordi su pagina come se fossero i nostri.
Sempre a prescindere dalla nostra idea, è impossibile tuttavia non ritrovarsi d’accordo con la sua posizione di fondo che appare forte e netta già in questa prima parte del saggio: gli ultimi decenni della nostra storia sono stati un delirio nevrotico che ha richiesto, da parte nostra, una accelerazione sempre più insensata nei ritmi per un ritorno ben magro, se non negativo, sulle nostre esistenze.
Se l’alternativa non sarà l’utopia di Bifo, dovrà comunque essere qualcos’altro. Il “There is no alternative” di tatcheriana memoria non ha più ragione di esistere.

Belle alcune immagini e metafore.
Quella iniziale ad esempio, che mi ricorda un fumetto di Martin Mystere che sono andato a ritrovare: la pandemia e le sue conseguenze (in particolare il “rallentamento”) non sono altro che il sintomo di una malattia che il pianeta terra sta cercando di debellare, come un organismo che si riposa per recuperare ed espellere il nemico biologico. Franco “Bifo” Berardi chiama questa malattia neoliberismo (una definizione fin troppo di moda per designare il “mostro moderno”) ma noi ci possiamo comunque sentir liberi di dargli ragione utilizzando un nome diverso. Perché dargli ragione, ormai, non sembra più questione di opinione.

Una pagina tratta dal fumetto Martin Mystere Extra n. 4 (gennaio/febbraio 1997)

Quando leggo un libro, non mi aspetto mai di essere completamente d’accordo con l’autore. Talvolta mi piace un punto di vista diverso, a volte invece mi basta ricordare uno o più particolari, riflessioni, idee significative.
Ce ne sono varie nel libro, ma mi è piaciuta particolarmente questa, perché era già “mia”:

Ma cos’è il terrore? Terrore è una condizione in cui l’immaginario domina completamente l’immaginazione. L’immaginario è l’energia fossile della mente collettiva, le immagini che l’esperienza vi ha depositato, l’imitazione dell’immaginabile. L’immaginazione è l’energia rinnovabile e impregiudicata. Non utopia ma ricombinazione dei possibili.

E’ una riflessione che fa il paio con quella già citata in un altro articolo linkato in questo blog:

Chi immagina per primo vince – questa è la legge universale della Storia.

A cui fa seguito il giusto dubbio:

Almeno credo.

Cosa abbiamo di profetico o sincromistico in questo libro?
Ad esempio la citazione di un suo romanzo, praticamente invenduto, intitolato “Morte ai vecchi”, di cui Bifo ci racconta la trama:

Scoppia una specie di epidemia inspiegabile: ragazzini di tredici-quattordici anni ammazzano i vecchi, dapprima alcuni casi isolati poi sempre più frequenti, poi dovunque.

Il suo racconto fa parte di una pagina del diario del 18 marzo, in cui Bifo sembra leggere metaforicamente, oltre che una precisa dinamica della pandemia Covid che colpisce gli anziani, un collegamento coi ragazzi di FridayForFuture e Greta Thumberg, ignorati dai Grandi Vecchi dell’economia e della politica, che ottengono per vie traverse un riscatto alleandosi con Gea, la divinità del pianeta Terra.
Io ci leggo invece (a posteriori) una visione premonitrice della colpevolizzazione dei media nei confronti dei ragazzi della “movida”, additati come untori.

Movida, Covid e Giovani

Nella seconda parte del saggio poi, il tono si eleva e lo sguardo spazia ben oltre e ben sopra il quotidiano, approdando a citazioni letterarie più o meno pop (da Ugo Foscolo a William Burroughs, da Giacomo Leopardi a Philip K. Dick) ma anche a riflessioni sociologiche miste a visioni svincolate dal razionale dominante. Il titolo di questa seconda parte è “Sei meditazioni sulla soglia” e una di esse, “La profezia sensuale” è esattamente il materiale di questo blog, come appare chiaro leggendo, ad esempio:

Quel che mi interessa dell’attività profetica è questa capacità della mente umana (di alcune menti umane) di sintonizzarsi con l’inconscio collettivo, o, forse meglio, la capacità di leggere i flussi che circolano nella psicosfera.

Trovo che queste riflessioni costituiscano la parte più interessante dell’opera.

Due parole conclusive poi merita il titolo e la tematica apocalittica. Come in vari altri autori, il Covid, abbinato ad altri elementi di discussione pubblica quali l’inquinamento e il riscaldamento globale, fa emergere in modo naturale la tematica tipicamente evoluzionista dell’estinzione della razza umana. Bifo prevede una apocalissi e una catastrofe (analizzando l’etimo di questa parola: andare oltre la soglia) ma, pur evocando lo scenario, la identifica con la fine di una vecchia fase e dell’inizio di una nuova in cui la volontà dell’uomo non ha più un ruolo centrale. Si tratta di un passaggio che, tuttavia, è convinto non avverrà in modo pacifico, né scontato nei suoi esiti.
Bifo colloca l’inizio di questa guerra ideologica e fisica esattamente dopo la fine della pandemia ma, fortunatamente, il suo tono non è né quello del profeta, né quello del futurologo che prendono i propri vaticini troppo sul serio.

E’ definitiva di una lettura molto interessante, anche se, forse, siamo ancora troppo immersi nelle vicende descritte per poterle valutare con la lucidità necessaria a trarre una qualche intuizione utile. Come sostiene anche l’autore ad un certo punto della sua disamina, l’apocalisse che tanto aspettavamo è scesa sulla Terra. Prevedevamo una deflagrazione improvvisa e non una catastrofe al rallentatore, ma ormai l’apocalisse è qui e ci siamo esattamente in mezzo.





La sincro-retrocausalità di Bifo

13 10 2020

Leggere prima i due post seguenti:

https://civiltascomparse.wordpress.com/2018/09/17/eric-wargo-time-loops-libro/

https://civiltascomparse.wordpress.com/2018/01/13/un-nuovo-approccio-alla-precognizione-raccolta-di-appunti-parte-1/

Non riesco più a ritrovare sul web una cosa di Franco “Bifo” Berardi da me letta in cui raccontava di come, decenni e decenni fa ormai, intorno al 1980-1981 o giù di lì, dopo la fine della “grande ondata di rinnovamento” iniziata intorno al 1960 [leggere il libro “L’orda d’oro” di Nanni Balestrini e Primo Moroni] , ci avrebbero atteso ora decenni di un faticoso – e anche per certi versi doloroso – mantenimento di uno “status quo”, basato sulla fusione tecnocratica tra sistema burocratico di stato e meccanismi automatici di mercato, a cui molti avrebbero dato il nome di “neoliberismo.”

Leggendo alcuni passi tratti dal testo a questo link, “https://www.doppiozero.com/materiali/bifo-fenomenologia-della-fine“, sono stato colpito dal fatto che secondo l’autore sono in via di compimento progressivo quelle lontane profezie inizio anni Ottanta di Franco “Bifo” Berardi [apparse allora su pubblicazioni di controinformazione semi-clandestine adesso del tutto introvabili], a cui ha tenuto fede in tutti questi anni, mostrandosi talvolta come una specie di Don Chisciotte.

Le previsioni di Bifo, che ha continuato a non mollare nonostante apparisse andasse controcorrente in una maniera appunto quasi donchisciottesca, hanno cominciato a concretizzarsi, quarant’anni dopo, in questo 2020, anno le cui conseguenze future Berardi sembrò averle percepite a dir poco in anticipo. Quindi, nonostante certi nostri argomenti di questo blog, come la RETRO-CAUSALITà (le cause situate nel futuro, leggere il libro “Time loop” di Eric Wardo, 2017) ci sembrano ancora decisamente  non considerati da parte anche dell’informazione non mainstream,  tra le parole di alcuni autori, in modo non cosciente, quegli argomenti iniziano (?) ad affiorare qui e là.

Il soprannome “Bifo” di Franco Berardi  deriva dal tempo in cui  con quel nickname (si sarebbe detto in seguito…) era uno degli animatori, a metà anni Settanta, della radio libera bolognese “radio Alice” la quale, ricordiamo, venne fatta chiudere dalle forze dell’ordine perché considerata sovversiva.

Eppure il libro di Bifo ha qualcosa di diverso, una freschezza le cui origini potrei riassumere in una parola: sincronicità. Sembra che Bifo stesse aspettando da tutta la vita di scrivere questo libro, e in un certo senso è proprio così. Non ci troviamo davanti a un autore a cui è stato chiesto di parlare del virus, ma a un autore che ha sempre parlato del virus fino a quando questo è arrivato per davvero e le cui riflessioni a riguardo, quindi, suonano puntuali ed efficaci. […] tra il Covid e Bifo sembra esserci una simbiosi perfetta.

Se la lettura è così piacevole però si deve soprattutto al fatto che Bifo è chiaramente a suo agio a parlare del virus: al fatto, cioè, che in tutta la sua opera ha parlato in un modo o nell’altro del ribaltamento totale del paradigma capitalista, anche quando la Storia sembrava andare in direzione opposta. Mi viene da pensare a un fotografo che passa quarant’anni a preparare l’inquadratura per uno scatto le cui condizioni sa misteriosamente che si materializzeranno nel lontano futuro: alla fine il soggetto giusto passa davvero davanti alla macchina fotografica e i tasselli vanno miracolosamente al loro posto. È il talento e la condanna dei visionari.

[…] Bifo raccontava già il mondo del futuro quattro decenni fa, in un cortocircuito temporale che risuona con l’hauntologia [http://covatamalefica.blogspot.com/2008/06/hauntology-1-visioni.html] dei nostri tempi: questo futuro di accelerazione e automazione, di postcapitalismo e virus psichici, di crisi permanente e apocalisse al rallentatore che abitiamo sgomenti. 

Questo futuro, per citare il titolo di una rivista brevemente pubblicata da Bifo nel 1977, in cui finalmente il cielo è caduto sulla terra – e ora che la realtà ha compiuto l’atto surrealista della sovversione radicale con questo mondo sottosopra dobbiamo fare i conti. Nelle sue 250 pagine scarse che si leggono come fossero meno della metà, Fenomenologia della fine offre una quantità sorprendente di idee e spunti, analisi e categorie per immaginare una via d’uscita dalla crisi che non sia l’ennesimo tentativo di mantenere in vita artificialmente il cadavere di un sistema agonizzante da anni.





Ma insomma cosa diavolo è questa vaporwave?

29 04 2017

Continua da: https://civiltascomparse.wordpress.com/2017/01/23/eroi-di-un-sogno-di-sixthclone/

https://civiltascomparse.wordpress.com/2017/01/17/la-chiamavano-vaporwave/

La vaporwave è un genere musicale ispirato dalla EDM (Electronic Dance Music),  dal seapunk, dalla dance indipendente chillwave, dalla synthwave, dal glo fi, dalla summermusic, dalla newretrowave (che però è filosoficamente tutta un’altra cosa rispetto al vaporwave); è stato ispirato anche dall’hypnagogic pop e dal cosiddetto futur funk, oltre che dalla muzak o elevator music (la musica degli ascensori, dei supermercati e delle sale di attesa) ed è stato influenzato pure dallo smooth jazz, dal contemporary rythm’blues e dalla lounge music. Il genere vaporwave eredita anche lo spirito della house music – dal momento che si può fare comodamente a casa con applicazioni di manipolazione audio gratuiti e scaricabili – ed è un genere fatto per la Rete. I brani musicali vengono downloadati dalla Rete e, rimasticati, vengono poi uploadati nella stessa Rete, è il genere musicale di internet e dei prosumer, è il genere musicale della Casaleggio Associati.

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I file audio – soprattutto di brani electro synth pop anni ottanta novanta – vengono modificati stiracchiandone il tempo, rallentandoli, rimontandoli in dei modi inediti con gli effetti audio dei software di audio editing. La vaporwave è anche conosciuta per il suo uso di ideogrammi orientali (preferibilmente giapponesi ma non solo, anche coreani) dentro i titoli delle tracce sonore. Gli ideogrammi fanno ricordare il mondo dei romanzi postmoderni di Banana Yoshimoto, e dei cartoni animati giapponesi, gli anime. Non a caso, visto che il postmoderno giapponese è il postmoderno più postmoderno che ci sia.

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Il genere vaporwave è stato spesso descritto come una satira della cultura della globalizzazione neoliberista delle multinazionali e del consumismo e, nello specifico, una critica verso il mondo della musica pop dance elettronica commerciale.

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La sua storia è la seguente: secondo un articolo del Chicago Reader, il genere vaporwave emerge nel luglio 2011 con la comparsa dell’album New Dreams LTD di Laserdisc Visions, il quale fu successivamente definito utilizzando la parola “vaporwave” dal produttore texano Will Burnett.

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Il produttore texano Will Burnett.

Il primo conosciuto uso del termine fu pubblicato in una recensione per l’album Surfs Pure Hearts di Girlhood nel blog musicale Weed Temple il 13 ottobre 2011.

C’è stato un numero di album descritti da molti nella comunità vaporwave per essere stati una sorta di catalizzatori per il genere o “proto-vaporwave.” Questi album includono una pubblicazione di Daniel Lopatin (anche conosciuto come Oneohtrix Point Never) sotto Chuck Person, intitolata Chuck Person’s Eccojams vol. 1 e poi abbiamo l’album di James Ferraro Far Side Virtual. La musica di Eccojams’ consiste in ciò che Lopatin ha definito come “echo jams” (ovvero “inceppamenti di eco”) dove le forme di musica pop, di solito degli anni ottanta, sono rallentate e qualche volta messe a loop oltre che tagliate e avvitate. I temi e lo stile di Far Side Virtual di Ferraro sono simili a quelli del vaporwave: la globalizzazione, la cultura internet e la critica della cultura consumista postmoderna, una critica fatta con campionamenti musicali di sample e loop che ricordano (cioè che vengono proprio fatte con) musiche di ascensore, musichette di windows e altra roba di questo tipo. Fino a qui il testo su http://knowyourmeme.com/memes/cultures/vaporwave

Possiamo aggiungere che il termine sembra derivare dal neologismo informatico vaporware, con cui si indicano, sarcasticamente, i prodotti informatici (hardware e software) di cui viene indicata una data ufficiale di uscita sul mercato ma poi questi prodotti informatici alla fine non escono, si vaporizzano e c’è chi dice che sembra anche derivare da un passo del “Manifesto del partito comunista” di Marx ed Engels in cui si scrive che “Tutti i solidi alla fine si vaporizzeranno nell’aria.”

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Bene, se pensate che quanto scritto sopra vi abbia spaccato la testa (ancor prima di iniziare a sentire un singolo suono di questa musica) ciò è niente in confronto alla pagina wikipedia inglese alla voce vaporwave dove ci si infila dentro anche il surrealismo, il cyberpunk, la glitch music (quella fatta con gli errori delle apparecchiature acustiche), la stock music, il retrofuturismo, l’hardvapour, il seapunk, Friedrich Nietzsche, l’utopismo, l’ipercontestualizzazione, una “distopia dada”, fino a giungere alla simpson wave e alla trump wave! (in Italia sembra sia nato il filone costanzo wave.)

Colpevolmente, a nostro parere, viene dimenticato il possibile apporto della witch house a tutto questo: la musica house fatta rielaborando sonorità estremamente gotic e dark, “de paura.” La quale si diffuse su You Tube qualche anno fa, con immagini e video di tipo creepy che accompagnavano i brani, generando una determinata atmosfera torbida e morbosa.

Ebbene, qui si è iniziato col classico, col modo classico di parlare di musica, anche quella più pop e contemporanea: gli album (magari definiti DISCHI addirittura!), gli artisti, le pubblicazioni, i rilasci, i generi, i sottogeneri, le recensioni, le riviste di musica ecc.

Tuttavia, la vaporwave, a nostro parere, va OLTRE tutto questo. La maggior parte della roba vaporwave (soprattutto quella più memica, il MEME vaporwave, quello dei rallentamenti dei brani del passato, ma non solo) non ha assolutamente nessun artista, nessun album alle spalle, sono tutti anonimi, con nickname. I titoli sul tubo (su You Tube) sono per una buona parte in giapponese e la parte non in giapponese è fatta con i caratteri, con il font vaporwave.

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Una cosa importante dell’attuale vaporwave (da qualcuno definita sorpassata e defunta ma secondo noi non è vero, anzi è appena agli inizi) è che non si limita affatto alla semplice musica, ai semplici suoni manipolati ma è una sinergia tra suoni e immagini e anche titoli. E’ la creazione di un ambiente, di un clima psichico, una specie di realtà virtuale fatta di

  1. Elaborazione audio, più o meno estrema, di brani pop radiofonici del recente passato;
  2. Titoli in ideogrammi, caratteri ASCII, font particolarmente “estetico”;
  3. Immagini di anime giapponesi, grafica windows del passato, statue classiche, ambienti palmizi tipo Florida o California, estetica multinazionale anni ottanta novanta;
  4. A tutto ciò (di base, di default diciamo) si aggiunge qualsiasi altra cosa: per noi in Italia, ad esempio, la cedrata Tassoni o il Cinzano o Jerry Calà e Umberto Smaila di Colpo Grosso e le FIAT Tipo ecc. (vedere per esempio https://www.facebook.com/vaportorino/?fref=ts)

ci vuole tanto vapore

E il tutto può benissimo essere fatto “in diretta”: ho visto in un video dedicato all’iperstizione (hyperstition) e al cosiddetto “accelerazionismo” (spero ne riparleremo sul blog) dove viene mostrata della gente che fa vaporwave in diretta, in un qualche evento in un locale – come fossero dei deejay – utilizzando you tube, you tube converter, ricerca di immagini google, photoshop, effetti sonori mp3, applicazione scaricate di manipolazione audio, e ci dà dentro, smanetta e crea lì sul momento l’aesthetic vaporwave per tutti i presenti.

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Si, perché un concetto centrale di tutto questo è che il risultato di queste manipolazioni audio-video-immagini di questa specie di NET.ART (arte di internet) è creare AESTHETICS. Cioè, quelle manipolazioni non devono portare a qualcosa di gratuito, di brutto e fastidioso anche se strano e originale, ma devono avere come obiettivo l’estetica, il bello, il meraviglioso in una forma di scintillante decadenza postmoderna controllata oltre che allucinata, psichedelica, distaccata e critica.

La vaporwave è un po’ il punto di vaporizzazione dei solidi (come si è detto prima citando Marx ed Engels), quando la complessità tipo matrioska dei sottogeneri musicali pop rock synyh jazz electro funk R&B ecc contemporanei diventa così estrema da andare fuori controllo ed arrivare a essere sostanzialmente irrintracciabile giungendo a qualcosa d’indescrivibile, una specie di caos magico.

 





La mia città, di Luca Carboni

16 04 2014

Il seguente pezzo del cantautore italiano Luca Carboni fu contenuto nell’album Carboni del 1992.

Seguendo bene le parole del testo, si avverte come la canzone riuscì ad anticipare diverse caratteristiche negative del sistema sociale neoliberista in cui ci troviamo tuttora a vivere, che si sarebbero ben manifestate con la cosiddetta globalizzazione, a partire dalla seconda metà degli anni novanta in poi, e che avrebbero preso una piega oppressiva, e quasi orwelliana, dagli inizi del XXI secolo in avanti.

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La mia città, senza pietà, la mia città 
ma come è dolce certe sere 
a volte no, senza pietà 
mi chiude in una stanza 
mi fa sentire solo 
Una città, senza pietà, la mia città 
non la conosco mai fino in fondo 
troppi portoni, troppi cassetti 
io non ti trovo mai 
tu dimmi dove sei 

Adesso dove si va, cosa si fa, dove si va 
siamo sempre dentro a qualcosa 
un’auto che va o dentro un tram 
senza mai vedere il cielo 
e respirando smog… 

ma guarda là, che cazzo fa, ma pensa te 
ma come guida quel deficiente 
poi guarda qua, che ora e’ già 
ma chi ti ha dato la patente 
che ti scoppiasse un dente 
a te…. 

siamo sempre di corsa 
sempre in agitazione 
anche te… 
che anche se lecchi il gelato 
hai lo sguardo incazzato 

La mia città, senza pietà, la mia città 
ma come è bella la mattina 
quando si accende, quando si sveglia 
e ricominciano i rumori 
promette tante cose 

Ma dimmi dove sarà, prima era qua 
c’è un nero che chiede aiuto 
dove sarà questa città 
E’ sparita senza pietà 
c’ha troppi muri la mia città 

Ma guarda che civiltà la mia città 
con mille sbarre alle finestre 
guardie giurate, porte blindate 
e un miliardo di antifurti 
che stanno sempre a suonare 

Perché… 
c’è chi ha troppo di meno 
e chi non si accontenta 
e c’è… 
chi si deve bucare 
in un angolo di dolore 
e c’è… 
che c’è bisogno di tutto 
c’è bisogno di un trucco 

Senza pietà, la mia città 
“Signora guardi che belle case 
però a lei no, non gliela do 
mi dispiace signora mia 
è tutto uso foresteria” 

La mia città, senza pietà, una città 
ti dice che non è vero 
che non c’è più la povertà 
perché è tutta coperta 
dalla pubblicità 

C’è chi a lavorare 
è obbligato a imbrogliare 
e c’è… 
chi per poterti fregare 
ha imparato a studiare 
E c’è… 
che c’è bisogno di un trucco 
c’è bisogno di tutto 
e c’è… 
bisogno di più amore 
dentro a questa prigione. 


Altri testi su: http://www.angolotesti.it/L/testi_canzoni_luca_carboni_194/testo_canzone_la_mia_citta_10736.html
Tutto su Luca Carboni: http://www.musictory.it/musica/Luca+Carboni





Renato Vallanzasca e Reinhold Messner

25 10 2013

Renato Vallanzasca e Reinhold Messner.

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Diverse volte, in questo blog, s’è parlato della PERDITA DEL MITO, non solo storico, ma anche legato alla cronaca, e di come questo processo sia andato di pari passo e accelerato, a partire dagli ultimi decenni (soprattutto l’ultimo decennio) del XX secolo (secolo molto mitizzato), con i processi di ultra-secolarizzazione dovuti all’ideologia dominante, il cosiddetto “neoliberismo”, “neomercatismo”, il quale ha banalizzato tutti i miti (culturali e sottoculturali) dell’occidente (estendendoli al mondo globalizzato) semplicemente trasformandoli in merce, acquistabile e vendibile, attraverso la loro spettacolarizzazione pubblicitaria tecnologicamente raffinata. Ecco perché, soprattutto nell’ultimo decennio, vengono così guardati con affettuosa nostalgia gli ANNI 80, perché, sostanzialmente sono stati gli ultimi anni dove, in qualche modo, vi era ancora un’esistenza fuori dal controllo della mercificazione universale supportata da un apparato spettacolare di dimensioni macroscopiche, il quale ha distrutto completamente, come uno schiacciasassi, la realtà precedente, ancora impregnata di FIGURE ARCHETIPE molto tangibili, appartenenti a un’epoca ancora priva di un’inflazione così totalizzante, come abbiamo ben visto dalla fine degli anni novanta in poi, dove personaggi della musica, del cinema, dello spettacolo, dello sport, dei libri, della cronaca, sono apparsi e dimenticati nel giro di pochissimo tempo, triturati da programmi Tv spazzatura, recensioni lampo subito buttate nel cestino (sia quello fisico sia quello digitale), reality show e social network, due espressioni chiave in lingua globish, per comprendere il picco dello svilimento e dell’inflazione di cui parlo, assieme a real time (ovvero ciò che è alla base sia dell’uno sia dell’altro.) Ebbene, per mostrare come questo svilimento e questa inflazione riguardano figure che vanno anche oltre il mondo del cinema, della musica, dell’arte, del teatro, dei libri, ecc ecc, ne ho catturato due in particolare – tuttora viventi e nemmeno troppo vecchi – il cui mito fa parte di quell’epoca che ha visto il tramonto negli anni ottanta, e che posso indicativamente collocare con la fine dell’Unione Sovietica. Queste due figure appartengono a un mondo che non c’è assolutamente più, un mondo ben definito e definibile, dove i mass media erano più lenti e sembravano davvero riportare “ciò che succedeva veramente”, un mondo senza telefonini cellulari e senza internet, dove vi erano figure ben riconoscibili, collocabili, sature di concretezza e realtà, sulle pagine dei giornali di cartaccia con le foto in bianco e nero e sulle televisioni che erano ancora un po’ in bianco e nero, era l’epoca un po’ a colori e un po’ in bianco e nero, e questi due vi appartenevano pienamente; ripeto, sono entrambi ancora vivi e non particolarmente vecchi, ma non sono più quei due che si sono giustamente stampati nella memoria, perché ben definibili, non personaggi usa e getta che durano lo spazio di una stagione tv o di quattro STATI su Facebook o su MySpace. Non appartengono nemmeno strettamente al mondo dello spettacolo, l’uno era un criminale dalle imprese rocambolesche e leggendarie, l’altro un alpinista dalle imprese rocambolesche e leggendarie. Erano ben definibili, avevano un loro perché, nessuno doveva sforzarci di farci notare che erano importanti, perché lo erano già di loro, lo capiva anche un bambino. Non si dovevano sforzare di essere famosi, perché lo diventavano naturalmente, senza sforzarsi. Agivano perché la loro natura era quella lì, avventurosa, oltre i limiti della fatica umana, al di là del bene e del male, non per essere inquadrati da una telecamera o un cellulare, o per essere celebri su internet attraverso un social network. E i loro volti riuscivano a imprimersi bene dentro le capocce perché appartenevano a un mondo che andava più lentamente in qualche modo, che era più credibile e quindi reale, e quindi anche loro erano reali, perché le loro imprese non erano studiate dalla Endemol o da qualche istituto di marketing, ma nascevano dall’intimo del loro essere (avventuroso criminale uno, avventuroso scalatore l’altro), le loro imprese le facevano a prescindere dal diventare i testimonial di una pubblicità, tanto per dirne una.