Una bestia chiamata Occidente: la nascita di una tragedia

22 08 2022
 
 
Alastair Crooke continua a esplorare le origini del totalitarismo nascosto dentro la [attuale] cultura europea.

(La prima parte di questi due articoli rintraccia le origini di un totalitarismo celato dentro questa cultura europea. La seconda parte si inoltra ulteriormente nella questione.)

 

Poiché mi immersi nel futuro, fin dove lo sguardo umano potrebbe spaziare,
Vidi la visione del mondo, e tutto ciò che sarebbe stato.

(Alfred Lord Tennyson)

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La nascita della tragedia (Friedrich Nietzsche, 1872) definì i due aspetti opposti gemelli della natura umana – la sua polarità – come comprendenti le (presumibilmente) virtù apollinee della ragione e dell’ordine essere in violenta opposizione psichica alle forze caotiche (dionisiache) di una scatenata e primordiale energia (simboleggiata come fuoco) nell’essere umano.

Nella visione di Nietzsche (così come in quella degli antichi), entrambe le polarità erano necessarie per bilanciare e armonizzare le faccende umane. Tuttavia, la secolare cancellazione della trascendenza, con cui il genere umano potrebbe trovare significato elevandosi a un livello differente di ‘comprensione’, ha come lasciato semplicemente premuto un pulsante acceso in una specie di pilota automatico, finendo appunto in tragedia.

Dunque, la tragedia – nella visione di Nietzsche “del mondo e di tutto ciò che sarebbe” – era che la razionalità, in assenza di un correttivo dionisiaco della sua potenziale distruttività, avrebbe teso a capovolgersi in uno strumento che, lungi dal mantenere l’ordine e la civiltà, sarebbe stato capace di far piombare nel disordine e nella barbarie.

Nietzsche fu in grado di capire che l’apparente marcia trionfale del progresso europeo si stava dirigendo verso una caduta catastrofica. Nietzsche temeva grandi guerre all’orizzonte, le quali – mentre egli stesso stava scivolando nella follia – sarebbero alla fine arrivate: infatti, proprio così come la sua malattia psichica, la follia del mondo da lui diagnosticata era destinata a fare il suo corso.

Una bella digressione, ma cosa questo aneddoto ha a che fare con l’occidente attuale? Bene, in verità ha molto a che fare. Nietzsche era figlio di un pastore protestante [caso strano, proprio come un altro visionario tragico, Van Gogh]. Fu missionario impegnato per l’Utopia universale; ma dal momento che per lui ‘Dio era morto’, divenne frustrato fino alla follia nello sforzo di immaginare come potesse essere organizzata una redenzione secolare dell’umanità. Alla fine, lo sforzo [non certo la “forza” di Guerre Stellari] lo spinse oltre il limite, nella follia. La sua è, in un certo senso, la storia della tragedia che si sta svolgendo oggi.

Se la “caduta” dell’Occidente ebbe la sua gestazione nella contro-cultura totalitaria della Rivoluzione Francese (vedere la prima parte), la “venuta al mondo” di questa caduta la vediamo nell’implosione dell’Unione Sovietica. Semplicemente, l’argomentazione dialettica ha una tesi e una contro-tesi, che alla fine dovrebbe produrre una sintesi. Dunque, con l’implosione dell’Unione Sovietica, la tesi occidentale definita nei termini della sua antitesi (l’U.R.S.S.) ha perduto la sua logica. Improvvisamente e drammaticamente, l’anti-tesi evaporò!

[“https://civiltascomparse.wordpress.com/2014/10/07/la-supersintesi-della-storia-occidentale-pensando-alla-dialettica-di-hegel/“]

Private dell’ancora del pensiero metodologico occidentale, le élite trionfaliste si sono allontanate dalla realtà, e in una serie di tentativi missionari di riplasmare il mondo a loro immagine, hanno abbracciato un’ideologia che pretende di essere esattamente ciò che non è. Cioè, un’ideologia che proclama la difesa della libertà e dell’individualità, mentre nasconde nel suo linguaggio [e nelle sue pratiche], un totalitarismo ereditato dai giacobini, [dai bolscevici] e dai fabiani [https://civiltascomparse.wordpress.com/2013/07/13/la-scena-finale-del-primo-film-della-serie-di-fantozzi-e-la-fabian-society/].

La “forma delle cose a venire” (presa in prestito da H. G. Wells, 1933) ed estesa all’inizio del 1900, doveva essere l’ “ultima rivoluzione” – un’ultima rivoluzione in mezzo al collasso sistemico (‘ultima’, poiché tutti da allora in poi sarebbero stati presumibilmente contenti all’interno di una realtà controllata modellata dalle caste superiori.) Questo fu il nichilismo europeo che collassava in una più estrema “riforma dell’umanità” scientifica di tipo bolscevico.

In che modo questa fantasia distopica è finita dentro l’attuale politica nordamericana [idealmente, “a capo dell’Occidente” da diversi decenni a questa parte]?

David Brooks, l’autore di Bobos in Paradise, (lui stesso un giornalista “liberal” del New York Times), ha affermato che di tanto in tanto emerge una classe rivoluzionaria che sconvolge le vecchie strutture. Tale nuova classe, Brooks afferma, non si proponeva di essere una classe sociale superiore di élite dominanti: è semplicemente…accaduto così. Inizialmente, nei suoi propositi, quella classe elitaria avrebbe dovuto produrre valori progressisti e crescita economica. Ma alla fine è cresciuta incontrollabilmente generando risentimento, alienazione, e innumerevoli disfunzioni politiche.

I facenti parte della “borghesia bohemienne” – o ‘BoBo’ – erano ‘bohémien’ nel senso che provenivano dalla generazione narcisistica di Woodstock; ed erano ‘borghesi’ nel senso che – passato Woodstock – questa classe “liberale” s’è successivamente evoluta nei vertici di potere del paradigma culturale mercantilista, aziendalista e di Wall Street.

Brooks confessa che inizialmente aveva guardato con favore a quei (“liberal”) BoBo. Tuttavia, si è alla fine rivelata una delle analisi più ingenue da lui scritte e ha ammesso: “In qualunque modo volete chiamarli, [quei “BoBo”] essi si sono fusi tra loro in una specie di “casta braminica inter-coniugale che domina la cultura, i mass media, l’educazione e la tecnologia.”

Questa classe sociale, che stava accumulando enormi ricchezze e si stava radunando nelle grandi aree metropolitane nordamericane, giunse anche a dominare i partiti di sinistra in tutto il mondo che erano in precedenza dei veicoli per la classe operaia.  “Abbiamo spinto questi partiti ancora più a sinistra sulle questioni culturali (premiando il cosmopolitismo e le questioni identitarie), mentre si annacquavano e si ribaltavano le tradizionali posizioni democratiche proprie dei vecchi sindacati. Quando degli appartenenti alla “classe creativa”, gli appartenenti alla classe operaia tendono ad andarsene via.” Queste differenze culturali e ideologiche polarizzanti si sovrappongono alle differenze economiche.

Se Repubblicani e Democratici parlano come se vivessero in due pianeti diversi, è perché:

“Mi sono sbagliato molto a proposito dei BoBo”, dice Brooks. “Non ho previsto con quanta aggressività ci saremmo mossi nell’affermare il nostro predominio culturale, il mondo in cui avremmo cercato di imporre i valori delle élite attraverso codici di pensiero e parole. Ho sottovalutato il modo in cui la “classe creativa” avrebbe innalzato con successo barriere intorno a se stessa per proteggere i propri privilegi economici … E ho sottovalutato la nostra intolleranza verso punti di vista differenti. Quando dici a una grossa fetta di una nazione che le loro voci non meritano di essere ascoltate, reagiranno male—e lo hanno fatto”.

I BoBo hanno voluto effettivamente realizzare ciò che diceva H. G. Wells nel 1901:

“E’ diventato evidente che masse intere della popolazione umana sono, nel suo complesso, inferiori nelle loro pretese sul futuro, rispetto ad altre masse, che non possono essere date loro opportunità o affidare loro il potere così come lo si affida alle classi superiori, che le loro caratteristiche debolezze sono contagiose e dannose per il futuro della civilizzazione”.

Qualcosa cominciò a cambiare verso il 2015-2016 – iniziò una reazione. Fu l’elezione a sorpresa di Donald Trump? Trump fu probabilmente accidentale. Più probabile fu il drammatico passaggio tra i conservatori nordamericani verso un’attitudine orientata a una maggiore libertà da questo Sistema. Le campagne elettorali del 2008 e del 2012 di Ron Paul hanno molto a che fare con questo cambiamento tra gli elettori repubblicani. I conservatori e gli indipendenti dalla mentalità aperta stavano ritornando alle loro fondamenta culturali caratterizzate da un governo e uno stato poco ingerenti, dalla priorità data alla costituzione, al pensiero indipendente, ai valori di merito – e non di casta – e alla decentralizzazione. Questo ha rappresentato il contro-polo, l’anti-tesi.

[“https://civiltascomparse.wordpress.com/2011/09/10/limpossibile-vittoria-di-ron-paul-alle-presidenziali-del-2012/“]

Fu a questo punto che il mondo “corporate”, aziendale, multinazionale nordamericano decise di diventare ideologico a pieno regime.

Uno storico culturale preveggente, Christopher Lasch, ha previsto ciò. Scrisse un libro – La rivolta delle élite – per descrivere come, già nel 1994, si fosse ‘tuffato nell’allora futuro’. Vide una rivoluzione sociale che sarebbe stata spinta fino al culmine dai borghesi radicalizzati. I loro leader non avrebbero avuto quasi nulla da dire a proposito della povertà e della disoccupazione. Le loro questioni sarebbero state incentrate su ideali utopici: diversità e giustizia razziale – ideali perseguiti con il fervore di una millenaria e astratta ideologia.

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Uno dei punti chiave su cui insisteva Lasch era che quei futuri giovani “marxisti” nordamericani avrebbero sostituito la lotta di classe con la lotta culturale. Aggiungendo che un’ “élite illuminata” (così come pensa di se stessa), “avrebbe potuto anche non degnarsi di persuadere la maggioranza […] … attraverso un dibattito pubblico razionale – mantenendo comunque la presunzione di portare la torcia per la redenzione dell’umanità. Le nuove élite disprezzano i “deplorabili”: una tribù che è tecnologicamente arretrata, politicamente reazionaria, repressiva nella sua moralità sessuale, mediocre nei suoi gusti, compiaciuta e compiacente, noiosa e sciatta”, come scrive Lasch.

Questo radicalismo sarebbe stato contrastato, predisse, ma non dagli strati più alti della società, ne dai leader della Gran Filantropia o da quelli delle grandi imprese e aziende miliardarie. Questi ultimi, anzi, in qualche modo contro-intuitivamente, ne sarebbero divenuti i loro facilitatori e finanziatori.

Non sorprende dunque che la Gran Filantropia finanzi e condivida le aspirazioni di tali radicali. Le grandi attività filantropiche di oggi non hanno relazione alcuna con la filantropia tradizionale. Piuttosto, i vertici della filantropia nordamericana oggi sono dei rivoluzionari, occupati, come sono, da istituzioni massicce e benestanti le quali non provano altro che disprezzo per le idee tradizionali della filantropia.

Oggi come oggi, la convinzione (nel contesto di ciò che è visto come il fallimento dei diritti civili e delle riforme del New Deal), è che una filantropia rivoluzionari dovrebbe essere schierata per “risolvere i problemi una volta per tutte”. L’ideale si manifesta nello sforzo di portare profondi cambiamenti strutturali nella società, sfidando quelle che sono considerate le fondamentali ingiustizie istituzionali degli ordini economici e politici. Ciò significa spostare ancora una volta il potere, via dalle élite, ‘le quali sono così spesso maschili e di razza bianca’ e dunque fanno parte delle ingiustizie strutturali della società – per mettere la ricchezza della Fondazione direttamente nelle mani di quelli che sono stati sistematicamente vittimizzati.

Questo importante cambiamento ideologico necessita di essere assorbito: la Gran Filantropia, i “Big Tech” e i grandi Consigli di Amministrazione (CEO) si son ritrovati dentro il movimento ‘Woke’ e quello dei militanti ‘Black Lives Matters’, e stanno rilasciando “Big Funding” (diverse tra queste fondazioni possiedono risorse tali da eclissare quelle dei più piccoli stati nazione). Anche qui vediamo all’opera un effetto moltiplicatore, poiché Big Philanthropy, Big Tech e Big Biotechnology agiscono come un sistema di rete interconnesso. Sono tutti al lavoro per costruire un futuro “trans-umanizzato” guidato dalla tecnologia e dall’intelligenza artificiale, guidato da una ‘aristocrazia multiculturale.’

Una parte di questa aggressiva rotazione nei “posti di lavoro di alto livello” può essere  attribuita al cosiddetto “movimento ESG” (Environmental-Social-Corporate Governance) – uno strumento per fondazioni globaliste quali la fondazione Ford, la Rockefeller Foundation e il World Economic Forum. A tutto questo ci si riferisce anche come al ‘capitalismo delle parti interessate’ e all’ ‘investimento relativo alla missione’ – che, in effetti, è solo un altro termine metodologico col quale tutti i pensieri umani e i comportamenti quotidiani, possono venire sia ripiegati in un mono-pensiero di uno stato unitario, sia per la direzione politica del comportamento delle imprese.

Il movimento ESG, così come la Gran Filantropia, riguarda il denaro: prestiti che vengono concessi dalle principali banche e fondazioni a quelle aziende che sono in bolla con le linee guida dello ‘stakeholder capitalism’ (‘capitalismo delle parti interessate’.) Le aziende sono costrette a mostrare che stanno attivamente perseguendo un tipo di business che dà la priorità ai valori Woke e alle restrizioni per “combattere il cambiamento climatico.” […]

Anche il regime biomedico emerso sulla scia della pandemia di Covid, poggiava su un imperativo morale di tipo ESG. Fin dai primi giorni della pandemia, le parole ‘vulnerabilità’, ‘solidarietà’ e ‘cura’ sono stati consolidati in questo modello proprio dell’ESG: ‘sicurezza collettiva.’

L’idea della vulnerabilità non ha niente di nuovo. Inizialmente, si pensava che fosse la classe operaia ad aver bisogno di protezione. Ma sulla falsariga dell’ideologia della Gran Filantropia, sono i gruppi identitari, i marginalizzati per questioni razziali e gli emarginati per questioni sessuali a essere divenuti ‘soggetti vulnerabili’. Questa narrativa è stata assimilata nel più ampio meme della ‘politica dei sacrifici’ per cui siamo pronti a sacrificare le nostre libertà per le vite di altre persone: per proteggere i gruppi vulnerabili, perché questa è la nostra solidarietà. Cioè, ha fine la libertà individuale quando ha inizio la libertà collettiva.

La vita lavorativa è diventata un costante indotto sacrificio di sè, un cosiddetto “walk of shame”, un “cammino della vergogna.” Anche gli sforzi più assurdi vengono richiesti ai lavoratori perché dimostrino di essere degni di avere un lavoro. Sessioni di auto-flagellazioni di massa nei posti di lavoro, università e scuole – seminari contro il razzismo, polizia linguistica di tipo LGBTQ , corsi di ‘coscienza climatica’ , tutto imposto dall’alto – sono divenuti rituali saldamente radicati. Quindi, non c’è da stupirsi se un recente studio di Lancet su 10.000 adolescenti e giovani adulti abbia rivelato che più della metà di loro si sentiva “triste, ansioso, arrabbiato, senza potere, senza aiuto e in colpa” “per il cambiamento climatico.” Insomma, la gente sta seguendo Nietzsche, e sta silenziosamente diventando matta.

Lo status quo, l’establishment, non ha semplicemente nessun messaggio da dare per tali elettori di fronte alle difficoltà in arrivo. L’unica visione per il futuro che può evocare è Net Zero – un’agenda distopica che porta verso nuove vette la politica dell’austerità e dei sacrifici e la finanziarizzazione dell’economia.

C’è un film su un antropologo tedesco che si reca in Colombia, Embrace of the Serpent, l’esploratore è alla ricerca di una rara, ma celebrata, pianta curativa amazzonica . In precedenza, un altro esploratore tedesco, alla ricerca di questa pianta, partì per l’Amazzonia per non fare più ritorno.

In questa storia vera, l’antropologo incontra uno sciamano, che pensa di ricordarsi dove si trovano le piante.  E’ un viaggio arduo e pericoloso fatto con una piccola canoa, in pelle, larga appena lo spazio per sedersi.

Lo sciamano, i cui unici beni sono un perizoma e una pagaia, chiede perché gli europei ‘abbiano così tanto bagaglio’. “E’ più semplice senza”, suggerisce. Inizialmente, la domanda viene accantonata poiché l’antropologo si solleva, sudando e trascinando valigie e scatole trascinando giù su cascate, ogni giorno dai bivacchi notturni alla canoa. Ma lo sciamano lo tiene a bada: “la canoa non è stabile”, insiste.

Allora l’esploratore tedesco spiega che: in primo luogo, dentro i bagagli ci sono i diari dei viaggi del suo defunto predecessore e non può perdere quei diari. E poi ci sono la sua fotocamera e le fotografie. Si tratta di registrazioni vitali per il suo viaggio. Anche i suoi libri,  assieme ai diari e all’amato grammofono sono ugualmente preziosi.

Il viaggio si allunga, il fiume è vorticoso e le cose si fanno dure.

Poi, un giorno, di punto in bianco, l’antropologo getta via una valigia fuori bordo. Lo sciamano sogghigna. Poi una pausa; quindi un altro bagaglio viene buttato via. Alla fine tutti i bagagli vengono gettati in acqua … e stavolta è l’esploratore europeo che sorride con sollievo.

Man mano che i tempi si faranno più difficili, vedremo qualcosa di analogo: l’Environmental-Social-Corporate Governance (ESG) verrà gettato fuori bordo (sta già cominciando). Poi l’industria cinematografica Woke scivolerà nelle acque (sta sta succedendo velocemente). Poi sarà la volta delle lezioni obbligatorie di critica razziale ed equità, e poi chissà… anche le discipline riguardanti il Covid spariranno sotto i vortici dell’acqua che scorre veloce.

E sorrideremo, avvertendo che un pesante fardello non ce l’avremo più sulle nostre spalle.

Versione originale: https://www.strategic-culture.org/news/2022/08/15/a-birth-of-tragedy/





Vertigo o l’Eterno Ritorno (2)

1 03 2015

Continua dalla parte prima:

https://civiltascomparse.wordpress.com/2015/02/28/vertigo-o-leterno-ritorno-1/

Qui la versione originale:

http://2012diaries.blogspot.it/2015/02/eternal-recurrence-alfred-hitchcocks.html

“Ogni cosa è ritornata. La stella Sirio, questo ragno e i tuoi pensieri di adesso, e questo tuo pensare che tutte le cose ritorneranno.” Friedrich Nietzsche.

 

“…devono ancora incontrarsi, attrarsi, respingersi, baciarsi e corrompersi l’un l’altro, di nuovo…”

Il mito principale a cui vorrei guardare in relazione al film “Vertigo” è il concetto di Friedrich Nietzsche dell’eterno ritorno dello stesso, degli eterni ricorsi. In questo caso possiamo usare solo vagamente il termine “mito” perchè le idee relative all’eterno ritorno prendono varie forme. Nozioni di eterno ritorno di un certo tipo predominano in molte antiche, mitiche visioni del mondo, dal momento che queste furono fondate su nozioni cicliche piuttosto che lineari del tempo. Variazioni dell’idea emergono nelle speculazioni mitico-filosofiche dei greci, in particolare quelle di Eraclito, Empedocle e i Pitagorici. Nel periodo in cui visse Nietzsche, nell’immaginario dell’Occidente, la nozione di tempo ciclico era stata largamente rimpiazzata dal tempo lineare, narrativo, della Cristianità, sebbene l’eterno ritorno venne occasionalmente discusso come se si trattasse di una teoria cosmologica fisica, la quale funziona seguendo l’ipotesi che la materia finita in un tempo infinito, ripeterebbe inevitabilmente le stesse configurazioni ad infinitum. (Tale idea è espressa, per esempio, dal poeta e saggista Heinrich Heine: “Per quanto riguarda il tempo, esso è infinito, sono gli esseri nel tempo, i loro corpi concreti ad essere finiti. Tuttavia, adesso, può passare lungo tempo, secondo le eterne leggi che governano questo eterno gioco di ripetizioni, tutte le configurazioni che sono precedentemente esistite su questa Terra devono ancora incontrarsi, attrarsi, respingersi, baciarsi e corrompersi l’un l’altro, di nuovo…”)

Ciò che Nietzsche fece con questa idea, normalmente espressa in modo astratto o generico, è stato quello di renderla immediata, particolare e crudamente personale. L’idea sembra aver energicamente colpito il filosofo nel 1881, mentre stava facendo una gita nei boschi presso il lago di Silvapiana, e in seguito avrebbe occupato un persistente sebbene particolare significato nel suo lavoro. Il suo famoso discorso ne “La gaia scienza” è una specie di modo di pensare sperimentale:

Cosa succederebbe, se un giorno o l’altro, mentre sei nella più solitaria delle solitudini, un demone rubasse la tua attenzione dicendoti: “Questa vita che ora stai vivendo e hai già vissuto, dovrai viverla ancora una volta e innumerevoli altre volte, e non ci sarà nulla di nuovo in essa ma ogni dolore e ogni gioia, ogni pensiero e sospiro e ogni cosa, indicibilmente grande o piccola, nella tua vita, dovrai riviverla, e tutto nella medesima successione e sequenza? – anche questo piccolo ragno e questo chiaro di luna tra gli alberi, e questo momento e me stesso. L’eterna clessidra dell’esistenza è rovesciata ancora e ancora e tu con lei, un granello di sabbia.”

Nietzsche e il suo demone misero chiaramente a nudo al lettore ciò che, in altri tempi, era mostrato come un rompicapo, magari un’idea illusoria. L’idea dell’eterno ritorno, espressa in questa maniera, pone un gran peso esistenziale su ogni dettaglio della nostra vita, su ogni nostra azione, dalla più piccola alla più significativa.
Normalmente, noi buttiamo via una grande quantità di tempo sulla base del fatto che, a tempo debito, eseguiremo le azioni significative, caratterizzanti, della nostra vita, che non siamo ancora riusciti a compiere. Noi siamo abitualmente – come asseriva la scuola di Gurdjieff – dei dormienti, ipnotizzati dal posporre sempre in avanti ciò che consideriamo essere come “La Vita Reale.”
Il concetto di Nietzsche può dunque essere visto come un tentativo di scuotere il lettore dalla sua abituale condizione di trance letargica e costringerlo a contemplare il valore e la dignità della sua esistenza, nella sua dimensione passata e in quella più immediata.

Ai tempi di Nietzsche, il valore e la dignità della vita era largamente considerato come materia da essere giudicata nell’eternità dell’Aldilà. Naturalmente, per il fiero ateo che era Nietzsche, l’idea del giudizio post-mortem era puro anatema, e pensava che consolazioni metafisiche di questo tipo fossero un’abbietta svalutazione della vita in questo mondo. “Parlare di “un altro mondo” rispetto a questo, è abbastanza inutile, a condizione che l’istinto per la diffamazione, la denigrazione della vita non sia forte dentro di noi, in questo caso ci vendichiamo in vita per mezzo della fantasmagoria di “un’altra”, una “migliore” vita.” (Crepuscolo degli idoli.)

L’eterno ritorno può dunque essere visto come un concetto attraverso cui Nietzsche rigira su se stessa la “fantasmagoria” del giudizio post-mortem: un’eternità secolare i cui paradisi e gli inferni si fanno ogni giorno e in ogni momento della nostra vita, perchè essi solo costituiscono la nostra esistenza, adesso e nell’eternità. Ciò, in ogni caso, è come il concetto viene comunemente inteso, ma non c’è mai stato un consenso: per qualcuno, l’eterno ritorno è una specie di dottrina da prendere alla lettera, per altri un segno dell’incipiente follia di Nietzsche. Qualunque sia il caso, l’idea mantenne un fascino particolare nella sua mente, muovendolo a un tipo di poesia che talvolta fa venire in mente Lord Dunsany e qualche altro strano scrittore dello stesso tipo:

La tua intera esistenza, allo stesso modo di una clessidra, sarà sempre invertita e ricomincerà sempre da capo – un lungo lasso di tempo trascorrerà fino a che quelle condizioni da cui si erano evolute, torneranno nella ruota del processo cosmico. E dunque ritroverai ogni dolore e ogni piacere, ogni amico e ogni nemico, ogni speranza e ogni errore, ogni filo d’erba e ogni raggio di sole ancora una volta, e l’intero tessuto delle cose che compongono la vostra vita. E in ognuno di questi cicli della vita umana ci sarà un’ora dove, per la prima volta uno, e poi molti, percepirete il potente pensiero dell’eterno ricorso di tutte le cose:e per l’umanità questa è sempre l’ora di Mezzogiorno.

Come ognuno potrà rispondere alla prospettiva dell’eterno ritorno, dipenderà in larga misura da come considera la propria vita, o in quale punto venne avvicinato dal demone; l’eterna ripetizione di una vita soddisfacente, o di un momento estatico, è una prospettiva allettante, così come non è quella del suo opposto. Tuttavia, benchè Nietzsche sembra avere inteso di dare una clamorosa affermazione della vita, ciò che dice ha un po’ l’aria della persecuzione fantastica di un depresso.
L’eterno ritorno in senso generico – le stagioni, i ritmi planetari e cosmici – possono essere una nozione confortevole ed esteticamente piacevole, ma in relazione alla vita di un individuo singolo, l’idea di una ripetizione implacabilmente fissa della stessa, può generare un senso di disperazione e impotenza. Ciò fa pensare al castigo eterno di Tantalo e di Sisifo nel “mondo di sotto”: l’acqua che per l’eternità non si fa bere dal calice, il masso che rotola eternamente di nuovo giù dopo averlo portato in cima, la reiterazione incessante della futilità e l’incessante incapacità di abbandonare l’attività inutile; vi è un un’affermazione di Sant’Agostino secondo cui il percorso del peccatore è circolare, e abbiamo la realizzazione di Dante di quest’idea nella topografia dell’Inferno; pensiamo, inoltre, alla ripetitiva esistenza del tossicodipendente e l’incessante circolo vizioso mentale innescato dall’ossessione del sentirsi colpevole.

E’interessante notare che l’idea dell’eterno ritorno ossessionò l’immaginario moderno, ma molto meno in senso positivo – “L’ora di mezzogiorno” implicata da Nietzsche – e molto più con l’atmosfera di mancanza di speranza, con l’assurdo e l’inevitabile.
Il ritorno del tempo circolare sembra perseguitare il moderno immaginario, come una specie di sotterraneo rimprovero al tempo lineare redentore del cristianesimo, e il suo corrispettivo laico della speranza nel miglioramento sociale e nel progresso tecnologico.
Un orrore per la ripetizione, un senso di impossibilità di cambiamento reale e progresso, sembrava sottolineare le rigide leggi della natura, la routine inflessibile della catena di montaggio in fabbrica, e le circonlocuzioni spersonalizzanti del mondo burocratico. Noi troviamo evocata da Camus quest’ombra dell’eterno supplizio di Sisifo, nei vagabondi di Beckett e nelle malcapitate vittime di Kafka o nelle preoccupazioni implicite di Borges per i dedali e i labirinti, coi loro percorsi biforcuti che ci riportano sempre al punto di partenza.
Nel cinema, troviamo l’espressione più pura di queste idee – il dedalo, il labirinto, l’eterno ritorno al punto di partenza – nel classico del cinema contemporaneo “L’année derniere à Marienbad” di Alain Resnais (1961), col suo hotel-purgatorio di giochi arbitrari e impossibili da vincere e protagonisti che si incontrano tra di loro per la prima volta, o forse solo l’ultima di una sequenza interminabile.

Tra i morti o Non ci sarà mai un altro come te

Sebbene probabilmente non inteso come tale da Hitchcock (o dall’autore del libro “Tra i morti”, [da cui “Vertigo” è tratto]), l’eterno ritorno è un prisma intrigante attraverso cui osservare “Vertigo.”
Il film è, dopotutto, la storia di un uomo che è perseguitato dal ritorno: la conquista e la perdita della sua amata, che si ripete come un pattern, che lo fa sempre ritornare al suo stato emotivo iniziale d’impotenza e di colpevolezza, uno stato emotivo d’abiezione che si intensifica a ogni reiterazione.
L’idea di un ritorno da cui non si può fuggire, del passato, della mente ossessionata da certi eventi, idee e feticci, dai fantasmi di certi luoghi che risuonano emotivamente, compenetrando il mondo dei vivi con quello dei morti – è intrinsecamente intessuto nell’intera trama di “Vertigo.” L’idea è concretizzata dal motivo visuale ricorrente nel film: la spirale, che vediamo ripetersi nei titoli e nell’incubo di Scotty, l’acconciatura di Madeleine, la scala del campanile, e il famoso giro a 360°della cinepresa intorno al bacio tra James Stewart e Kim Novak.

 

Come interessante divagazione, la più recente apparizione importante del concetto di eterno ritorno nella pop culture è avvenuta, naturalmente, nel calderone ribollente di True Detective, coi suoi intrighi decorativamente filosofici. Questo show ha anche adottato la spirale come motivo visuale principale.

La spirale, e il ritorno del passato, coinvolge anche il notevole utilizzo in “Vertigo” delle sue location nella città di San Francisco. In generale, la città è la rappresentazione fisica dell’idea del labirinto temporale, del passato che perseguita il presente. Nonostante la loro relativa antichità, le città conservano sempre il senso di essere il locus del moderno, del nuovo, dell’istante presente. Le città registrano i cambiamenti più rapidamente, nella scala temporale umana, rispetto al ritmo di cambiamento più lento del mondo della natura. Ma le città possiedono anche un ricordo delle loro proprie storie. In un certo senso, sono esse stesse il loro proprio museo, con le facciate moderne e le recinzioni di vetro attraverso cui si intravedono le loro precedenti forme di esistenza.

La San Francisco di “Vertigo” è definita sia dalla sua propria storia e dalla compenetrazione della sua storia pubblica con quella delle storie personali dei suoi protagonisti. I suoi luoghi sono tutti ricchi di storia locale: vecchie chiese, cimiteri, musei e librerie antiquarie. Attraverso Scottie e Judy/Madeleine, queste vecchie storie si reincarnano, i luoghi s’invischiano in nuove tragedie e complessi emotivi. In questo interferire sulle storie personali e pubbliche, la San Francisco di “Vertigo” non è mai totalmente un terreno spaziale obiettivo; è segnato, disposto secondo le storie emotive, soggettive e le ossessioni dei suoi personaggi. Guy Debord definì nel 1955 il concetto, oggi molto di moda, di “psicogeografia” come “lo studio delle leggi specifiche e degli specifici effetti dell’ambiente geografico, coscientemente organizzato o meno, sulle emozioni e i comportamenti degli individui.” Applicata alle aree urbane, la psicogeografia offre mappe per esplorare come l’organizzazione fissa dello spazio della città diventa randomizzata e personalizzata attraverso le interazioni degli individui con essa; come l’esperienza della città è sempre parzialmente oggettiva e pubblica, e parzialmente un fluido, soggettivo spazio mentale.

Seguendo questa sommaria definizione, “Vertigo” è una delle più grandi espressioni di psicogeografia della storia del cinema. Noi spendiamo la maggior parte del seguire la prima parte del film, semplicemente muovendoci attorno a San Francisco, seguendo Kim Novak a piedi e James Stewart in macchina, essendo cullati dallo stato onirico suscitato dal silenzio presente in questa parte del film, dalla cinepresa a mano e dal contrappunto musicale perturbante di Bernard Hermann. La città in cui entriamo è più uno stato mentale che un luogo: si tratta della San Francisco storica, uno spaccato che traccia la storia specifica di Carlotta Valdes, il suo opulento matrimonio, la sua rinuncia, la sua follia e il suo suicidio finale. Si tratta anche del luogo in cui nuove tragedie si intessono sulle vecchie: la profondità dell’infatuazione erotica di Scottie verso Madeleine, e l’omicidio della Madeleine Elster reale, la quale, come vedremo, è una reiterazione e un ritorno della tragedia di Carlotta Valdes. Quando Scottie e Judy/Madeleine fanno finalmente conoscenza, e ognuno dice all’altro che ciò che stan facendo lì a San Francisco è semplicemente vagabondare.

Naturalmente, si tratta di una bugia da parte di entrambi ma il vagabondare diviene un altro dei motivi poetici di “Vertigo.” Vagare senza una destinazione prefissata è un componente cruciale dell’idea di psicogeografia; è un rigetto della fissità utilitaria dello spazio urbano, aprendolo a una logica sottostante di un viaggio mentale, di inaspettate giustapposizioni, coincidenze e avventure.
Scottie suggerisce che lui e Madeleine dovrebbero vagare assieme, cosa a cui lei ribatte che due non possono mai vagare, che due assieme implicano sempre una destinazione, recarsi da qualche parte. Cionondimeno, per il breve che vagabondano assieme, “Vertigo” raggiunge la sua oasi felice, la sua breve e tremebonda fuga dal tempo, dall’eterno ritorno.
Anche se entrambi non sono mai lontani da loro. La Storia è sempre sullo sfondo, proprio come Carlotta continua a riemergere in Madeleine.
La coppia visita il Muir wood national monument e, sotto le imponenti, antiche sequoie, noi incontriamo ancora una volta la spirale, e questa volta prende la forma degli anelli del tronco di uno degli antichi alberi sezionati.
“Qui da qualche parte sono nata”, declama in modo monotono Judy/Madeleine/Carlotta indicando col dito [un punto degli anelli della sezione della sequoia] “e qui sono morta. E’ stato solo un momento per te, non c’hai fatto neanche caso.”
Queste sequenze nel film, sebbene inquiete come di consueto, e cariche di morbosità, melodramma e tensione, cionondimeno sono le più felici. Scottie s’è innamorato, prima di tutto dell’immagine di Madeleine, e poi col suo mistero, con la richiesta di risolvere il mistero e salvare la donna misteriosa. Anche Judy si sta innamorando di Scottie, in questo senso la sua interpretazione diventa inaspettatamente una realtà (così come l’interpretazione della sua morte diventa una realtà al termine del film.) Sia per Scottie che per il pubblico, questo è un periodo di sospensione, dove il mistero è ancora irrisolto ed appare ancora possibile eludere il cupo ciclo di inevitabilità e ritorno.

Ciò è, naturalmente, impossibile. Scottie e Madeleine stanno muovendosi verso una destinazione prefissata (la torre campanaria della missione San Juan Batista), e mai veramente vagavano per cominciare. Madeleine (per volere di Gavin Elster) stava seguendo le orme storiche di Carlotta Valdes. Dopo aver perduto Madeleine, lo Scottie addolorato del secondo tempo diventa un vagabondo seguendo un altro pattern fisso; egli sta seguendo le tracce della sua personale storia, seguendo se stesso che segue Madeleine (seguendo Carlotta) nel primo tempo. In questo modo, tutto in “Vertigo” si ripete, si specchia in un’altra, precedente iterazione, ed è destinato a ripetersi in un’altra, successiva incarnazione.
Le due metà di “Vertigo” sono incernierate sull’idea di una storia tragica dal passato che si ripete nel presente: il suicidio di Carlotta Valdes nella prima parte e la scoperta di Scottie e la perdita di Madeleine nella seconda.
Per apprezzare quanto queste storie siano intricate una nell’altra, consideriamo Carlotta Valdes. Scopriamo qualcosa su Carlotta attraverso il libraio antiquario Pop Leibel (magistralmente interpretato da Konstantin Shayne):

“E’ venuta da qualche piccolo posto a sud della città. Qualcuno dice da un insediamento presso un monastero. Giovane, certo, molto giovane. Ed è stata pescata a danzare e cantare in un cabaret da quell’uomo. Egli la prese e ha edificato per lei la grande casa nella Western addition. E, uh, c’era, c’era un bambino, certo, ecco, un bambino, un bambino. Non posso dirvi esattamente quanto tempo è trascorso o quanta felicità ci fosse ma poi l’ha buttata via. Non aveva altri bambini. Sua moglie non aveva bambini. Così tenne il bimbo e buttò lei via. Sapete, a quei tempi un uomo poteva fare così. Avevano il potere e la libertà.”

Dunque Carlotta Valdes fu una bella giovane donna,, voluta come amante da un ricco, potente uomo. Ebbero un figlio assieme; lui, stanco di lei, si tenne il bimbo, e abbandonò lei alla disperazione e al suicidio finale. E’ la storia di un uomo potente che usa e abusa di una donna restando impunito. Per Pop Leibel, anziano, sanguigno e immerso nella Storia, questa è una piccola storia familiare, un pezzo di folklore, qualcosa una volta abbastanza comune. “Ci sono molte vicende simili” dice. Tuttavia, adoperando due sottili indizi verbali, “Vertigo” collega brillantemente la vecchia storia di Carlotta Valdes agli eventi presenti del film e, specificatamente, a Gavin Elster e sua moglie, la Madeleine Elster reale, che nel film non vediamo mai. Gavin Elster è anche uno ricco e potente che ha usato una donna e vuole sbarazzarsi di lei.

Leibel si riferisce due volte all’amante crudele che caccia via Carlotta. Questo è letteralmente ciò che Gavin Elster fa con sua moglie: la uccide buttandola giù dalla torre campanaria. Leibel dice che una volta gli uomini potevano permettersi di fare ciò poichè ne avevano “il potere e la libertà.” Questa è la stessa espressione che evoca Gavin Elster quando esprime la sua nostalgia per la vecchia San Francisco, in una delle prime conversazioni con Scottie: “Le cose che mi fanno capire di più San Francisco stanno scomparendo velocemente…mi sarebbe proprio piaciuto vivere qui a quei tempi – colori, emozioni, potere, libertà…”
Troviamo qui un’altro dei molti momenti ironici di “Vertigo”: l’idea che Madaleine sia stata posseduta da Carlotta Valdes è una storia messa in piedi da Gavin Elster; in realtà, il destino ultimo di Carlotta, il suo status di vittima di potente uomo senza cuore, è reiterato attraverso la vera Madeleine Elster. Anche Scottie, perlopiù una simpatica vittima della situazione, è coinvolto in questa sequenza: egli possiede Judy ma alla fine la perde proprio per via del suo desiderio ossessivo di vederla come reincarnazione di Madeleine. Questa è un’altra delle ironie del film, che ha le radici nel mito e nella tragedia: egli vuole veder tornare Madeleine in ogni infimo dettaglio, e ottiene il suo desiderio, solo per perdere lei un’altra volta, di nuovo uccisa dalla caduta dalla torre.

Cosa succede a Scottie dopo la fine di “Vertigo”? Se decidiamo di prendere il film a livello letterale, egli è devastato, distrutto, catatonico, probabilmente suicida. Sebbene sembra un po’ meno plausibile, alcuni spettatori hanno suggerito che egli è ora finalmente libero dall’illusione di Madeleine e dal suo ciclo di colpa e ossessione. Se seguiamo la profonda logica onirica di “Vertigo”, tuttavia, ci rendiamo conto che la storia ha da ricominciare di nuovo e ripresentarsi all’infinito, come succederebbe se guardassimo a loop il film, ricominciandolo ogni volta da capo dopo la fine. La sequenza dove Scottie vede Madeleine per la prima volta al ristorante di Ernie mostra un tono particolare. L’espressione facciale di Stewart suggerisce un’incalcolabile malinconia, e il tema musicale di Hermann sottolinea una tristezza per qualcosa ormai passato, una vecchia ferita riaperta, sebbene la storia sia solo agli inizi. In realtà, l’espressione di Scottie probabilmente indica solo la sofferenza di innamorarsi di qualcuno che si crede assolutamente irraggiungibile, a causa della nostra immaginazione eccitabile, è come se egli fosse vagamente consapevole di averla già amata e perduta, molte volte. Successivamente, dopo averla salvata dalla caduta nella baia, Scottie segue Madeleine che torna al suo appartamento, da dove le passa un biglietto di ringraziamento dalla fessura della porta. Leggendo silenziosamente la nota in presenza di Madeleine, Scottie dice: “Spero lo facciamo.”

“Cosa?” domanda lei.
“Incontrarci di nuovo.”
“Dobbiamo”, controbatte lei seriamente.
Sebbene solo di striscio, questo scambio di battute ricorda gli spostamenti temporali di “L’année derniere à Marienbad”, un film che si avverte, sotto certi aspetti, come un sequel di “Vertigo” ancora più surreale – possiamo vedere la coppia a Marienbad (l’uomo e la donna senza nome indicati come X e A nella densa sceneggiatura di Robbe-Grillet) come una versione successiva di Scottie e Judy, i quali sono passati attraverso così tanti cicli di incontro e separazione che il loro intero spaziotempo si disfa in una vertiginosa confusione. Come per tutte le opere hitchcockiane, l’influenza di “Vertigo” sul cinema successivo è pervasiva, e si va dalle sottili allusioni a qualcosa di più palese, come nel caso del virtuale remake di Brian de Palma, “Obsession.” Nelle ultime opere di David Lynch, troviamo senza dubbio la più evidente connessione con “Vertigo.” E’ difficile, quasi impossibile, immaginare “Lost highway” e “Mulholland drive” privi del progetto strutturale ereditato da “Vertigo.” Consideriamo le somiglianze. “Vertigo” si scompone in due parti: la prima che potrebbe essere considerata un sogno o il prodotto di una fantasia (la possessione di Madeleine Elster che permette a Scottie di cimentarsi detective), e la seconda in cui la realtà della situazione è messa a nudo (Scottie come una specie di bullo controllato, in ultima analisi menato per il naso da Gavin Elster e da Judy.)
La storia complessiva è quella di un uomo che trova la sua amata ma non sarà mai in grado di tenersela, e con la suggestione di essere intrappolato in un eterno, ciclico purgatorio. Ciò, sostanzialmente, è ciò che troviamo in “Lost highway” and “Mulholland drive” (sebbene sia del parere che, in questi film, la demarcazione tra sogno e realtà sia meno netta di come molti commentatori suggeriscono.)

Con “Mulholland drive”, per esempio, possiamo traslare lo Scottie di James Stewart in Betty Elms/Naomi Watt e La Judy/Madeleine di Kim Novak nella Rita di Laura Harring. Nella prima metà di “Mulholland drive”, Betty gioca il ruolo dell’eroina detective infatuato con la voluttuosa smemorata Laura Harring come donna del mistero, l’impossibile oggetto del desiderio. Betty è separata da Rita e, nella seconda parte del film, molto più disperata della prima, diviene una figura molto meno simpatica fino a uccidere Rita (ora Camilla Rhodes), proprio come le azioni di Scottie nella seconda parte di “Vertigo” portano alla morte di Madeleine (ora Judy Barton.) In “Lost highway”, vediamo qualcosa di simile ma al contrario: l’assassina del sassofonista Bill Pullman è forse Renee, sua moglie bruna, la quale poi apparentemente, rinasce con un’identità differente, più giovane, da lui riscoperta come la bionda Alice.
“Ti voglio” sussurra lui.

“Non mi avrai mai”, replica Alice, percorrendo il deserto e ritornando nell’irraggiungibilità. Ogni cosa ritorna…ed è di nuovo perduta.

Per non sminuire la notevole originalità di questi film, e le loro differenze rispetto alla fonte hitchcockiana, suggeriamo soltanto che “Vertigo” è l’antesignano del film-puzzle onirico. E’ degno di nota che “Vertigo”, “Lost highway” e “Mulholland drive” siano stati interpretati da qualche critico come possibili variazioni del concetto stabilito da una storia di Ambrose Bierce, “Accadde all’Owl Creek Bridge”: storie le cui narrazioni principali sono fantasie che esistono nell’immaginazione del protagonista sull’orlo della morte. Il critico James F. Mayfield sostiene che i principali eventi di “Vertigo” potrebbero essere produzioni mentali di Scottie quando è aggrappato ai tetti alla fine della prima sequenza. Ciò m’è sempre apparso come qualcosa di poco probabile, ma in realtà trova qualche sostegno nel fatto che la bozza originale della sceneggiatura (di Samuel A. Taylor) si intitolava “Tra i morti, o Non ci sarà mai un altro come te, di Samuel Taylor e Ambrose Bierce.”
Indipendentemente da come prendere quest’interpretazione, “Vertigo” può essere considerato come il primo tentativo d’espressione di quel genere di film la cui realtà è falsa o ambigua, ciò che Thomas Beltzer (nel suo saggio “L’anno scorso a Marienbad: una meditazione intertestuale”) etichetta, senza direttamente invocare Hitchcock, the ontological vertigo film.

Per concludere: abbiamo iniziato considerando la canonizzazione di “Vertigo” come “Il più grande film di tutti i tempi” dal sondaggio di “Sight and Sound”, e la comune critica di come la soluzione del mistero del film sfidi la credibilità e la logica. Questo, in un certo senso, non dovrebbe apparire così sorprendente: anche la più soddisfacente soluzione di un mistero porta con sè un che di perdita e di svuotamento poichè, per sua natura, l’enigma ha la sua più piena estasi solo quando rimane in uno stato sospeso di irrisolto. Lo stato emotivo di rapimento generato dal mistero ci attira verso la soluzione, la quale, in definitiva, consiste nell’annullarsi dello stato emotivo di rapimento. Ed è la situazione di Scottie: nel tentativo di ricreare Madeleine egli tenta di ricreare l’estasi del mistero, del momento della sua sospensione e non soluzione, del vagare piuttosto che dell’arrivare; ma precisamente agendo così, egli affretta la soluzione del mistero, e uccide la donna per sempre. Se “Vertigo” sia o no un film “perfetto” sembra irrilevante, perchè esso raggiunge qualcosa di più persistente della perfezione: è il più ossessivo di tutti i film.